Barrafranca: commerciante d’auto ucciso a colpi di lupara, un ergastolo e tre condanne per mafia
Assolti per «non avere commesso il fatto», avvocato Giuseppe Dacquì


Barrafranca: commerciante d’auto ucciso a colpi di lupara, un ergastolo e tre condanne per mafia
Inchiodato all’ergastolo nell’appello «bis» per un delitto di mafia. Mentre per altri tre imputati alla sbarra è caduta l’accusa di omicidio ed arrivato il colpo di spugna al carcere a vita. Ma, di contro, sono stati condannati per mafia per un totale di pena che, in tre, supera largamente il mezzo secolo.
Questo il quadro emerso dal quarto passaggio in aula, dopo l’annullamento con rinvio della Cassazione per la sola imputazione di omicidio, al processo per il delitto dell’allora quarantottenne commerciante d’auto di Barrafranca, Filippo Marchì assassinato colpi di lupara la mattina del 16 luglio 2017 nel suo fondo di contrada Friddani. E poi finito con un colpo al viso.
«Fine pena mai», con isolamento diurno per sei mesi, per Gaetano Curatolo (avvocato Domenico La Blasca) condannato sia per la missione di morte che per mafia.
Assolti per «non avere commesso il fatto», di contro, per l’agguato mortale, i fratelli Giovanni e Vincenzo Monachino, indicati come esponenti storici di cosa nostra ennese e ritenuti i mandanti dell’omicidio e, con loro, anche Vincenzo Di Calogero (avvocati Giuseppe Dacquì, Giovanni Palermo, Carmelo Lombardo e Valerio Vianello). I tre nei primi due gradi del giudizio erano stati condannati all’ergastolo. Poi gli «ermellini» hanno annullato l’imputazione più grave.Di contro, a loro carico, resta ferma la colpevolezza per associazione mafiosa – già blindata dalla Suprema Corte – con la pena più severa, 22 anni di carcere in continuazione, per Vincenzo Monachino, 18 anni al fratello Giovanni e 14 anni per Di Calogero. Questo il verdetto emesso dalla corte d’Assise d’Appello di Catania dopo che la Cassazione ha annullato il pronunciamento della corte nissena.
Stralciata una quinta posizione, quella di Angelo Di Dio (avvocato Antonio Impellizzeri) che era stato condannato a 30 anni di reclusione. Secondo la tesi degli inquirenti, Marchì sarebbe stato ucciso perché gli accusati lo avrebbero ritenuto vicino al clan nemico barrese che sarebbe stato legato ai Saitta.